IL DOLORE PSICOLOGICO NEL DOLORE CRONICO

Articolo della dott.ssa Ginevra R. Cardinaletti

Ci sono persone che lottano ogni giorno con il dolore fisico e di conseguenza con quello psicologico, e sono molte di più di quanto spesso si immagini.
A nessuno piace il dolore, ma resistere a un dolore circoscritto nel tempo implica un sacrificio mirato, limitato, e allora ci armiamo di santa pazienza e sopportiamo. Così accade quando affrontiamo un intervento chirurgico o una frattura o, dolore per antonomasia, il parto. Tutti dolori che hanno un inizio e una fine.
Tutt’altro discorso è il dolore cronico. In questo caso il dolore non ha una scadenza: per alcuni è frequente, per altri è addirittura incessante. È una costante nella vita di chi ne soffre, una parte importante, predominante, che influenza tutto: il lavoro, i rapporti sociali, l’umore, la quotidianità e la progettualità.

Un giorno ero al centro cefalee in attesa del controllo per la terapia con gli anticorpi monoclonali. Una signora mi si è avvicinata e mi ha chiesto se anche io soffrissi di emicrania cronica e alla mia risposta affermativa mi ha detto con disinvoltura: “Anche lei per il dolore insopportabile si voleva buttare dalla finestra?”. Le ho risposto: “Non proprio, ma quasi”. La semplicità di entrambe in questo scambio di battute mi ha fatto riflettere. Mi ha ricordato me stessa che al “Come stai?” molte volte ho risposto sorridendo: “A parte la salute, tutto bene!”.

Purtroppo siamo in tanti a convivere quotidianamente con il dolore e non sempre chi ci circonda riesce a comprendere cosa significhi.
Leggendo che lotto con un dolore cronico, molte persone mi contattano per condividere la loro esperienza, per dirmi che leggendo le mie parole si sentono meno sole. A volte queste persone soffrono di emicrania cronica come me, altre volte soffrono di fibromialgia. Due malattie invisibili, che ti cambiano la vita e che possono portare alla disperazione.
Ma la disperazione non te la puoi permettere: noi siamo quelli che non ce la fanno più ma ce la devono fare per forza.

In ogni malattia influiscono fortemente lo stress, l’ansia, la depressione e tutte le problematiche psicologiche. Per stare meglio dovresti essere più sereno, ma per essere più sereno dovresti stare meglio. Ecco qui il paradosso del malato cronico.
Nei periodi in cui il mio dolore era sia forte che costante, ovviamente ne risentiva fortemente anche il mio umore: come fai a essere sereno se ti scoppia la testa dal dolore e non riesci a fare niente? Ti svegli la mattina con il dolore e vai a dormire la sera con il dolore, anzi, vai a letto, perché dormire è un’impresa titanica. Devi rinunciare a quasi tutto e quel poco che rimane, le cose più semplici, diventano estremamente faticose. Diventa difficile riposare, mangiare, parlare, uscire, cucinare, diventa difficile anche lavarti i capelli.
Ti senti dire: “Signora, lei è depressa, è per questo che non riesce a risolvere”. E la risposta è: “Dottore, io non riesco a risolvere, per questo sono depressa”. E così ci si incontra in un punto che mette d’accordo tutti: è un circolo vizioso, è il famigerato cane che si morde la coda. L’umore incide sulla malattia e la malattia incide sull’umore.
Una volta giunti a questa consapevolezza, la domanda è: come si rompe questo circolo vizioso? Lavorando contemporaneamente su due fronti: il problema fisico e quello psicologico. Con enorme fatica. Sperando che prima o poi qualcosa cambi, anche se il timore è che non cambi mai più.
Io sono psicologa perché è una mia passione, quindi ho fatto di questa materia uno dei temi principali della mia vita: utilizzo la psicologia per aiutare le persone a stare bene e anche per stare bene io stessa. Sono la prima a mettersi sempre in gioco, a cercare nuovi strumenti, a provarli, adattarli e sperimentarli in prima persona.
Io, come un po’ tutti, ho affrontato lutti, perdite, malattie, momenti difficili, e il mio mettermi in gioco e provarle tutte mi ha sempre aiutato. E così ho fatto con il dolore cronico: non basta andare dallo psicologo, usare le tecniche di rilassamento, respirazione, mindfulness e altro. No, non basta, ma aiuta.
Ti aiuta anche per dire a te stesso che stai facendo davvero di tutto, che non stai lasciando niente di intentato, che se anche l’umore incide in minima parte, tu lavori anche su quella minima parte.

Per me non è mai stato un problema iniziare una nuova terapia farmacologica o mettere in atto nuove abitudini di vita o fare qualsiasi cosa possa aiutare la mia salute. Se stai veramente male non ti tiri indietro. Il problema per noi malati non è fare, il problema è quando non abbiamo più niente da fare, quando l’ennesima terapia è fallita, quando iniziamo a temere di non poter fare più niente. E allora io qualcosa faccio sempre, in alcune ci credo di più, in altre meno, ma continuo comunque a fare, provare, lottare. È un modo per non soccombere.

Quindi se pensiamo che andare dallo psicologo non ci cambierà la vita, non risolverà il problema, ma magari ci potrà aiutare ad avere qualche strumento in più, allora andiamoci.
Se pensiamo che lo yoga o il pilates o la camminata non risolvono ma possono aiutare a rilassarci, allora facciamo uno sforzo, l’ennesimo sforzo, e facciamoli.

La malattia, qualunque essa sia, non va mai sminuita: va riconosciuta e poi affrontata. “Sì, ho un problema grave, invalidante, e faccio il possibile per vivere al meglio”.
A volte mi sono sentita quasi in colpa perché in fondo la mia malattia non è mortale. Penso a chi ha un tumore o una malattia degenerativa e penso che io in fondo sono fortunata. Certo, sono fortunata, ma sono anche sfortunata. Non è questione di classificare l’ordine di sfortuna, è questione di avere consapevolezza del proprio problema, con tutto ciò che implica.

Una volta una conoscente, sapendo che avevo un problema di salute, mi ha chiesto di cosa si trattasse. Dallo scambio che avevamo avuto ho percepito che forse aveva capito che si trattasse di un tumore, così mi sono affrettata a dire: “No, non è niente di grave…” e le ho spiegato il mio problema. Lei non è di madrelingua italiana, ma in un italiano perfetto e in modo spontaneo mi ha detto: “Sì, per me è grave”. Mi sono sentita compresa, perché anche se non stai per morire, non riesci neanche a vivere. Dire che è grave non significa piangersi addosso, significa riconoscere il proprio problema, significa non sentirsi in colpa nel viverlo come tale, e allora puoi trovare la forza di affrontarlo.

Minimizzare non serve a niente, è come mettere la polvere sotto al tappeto e piano piano quel “Non è niente di grave” esplode, e allora meglio farlo uscire subito, affrontarla giorno per giorno quella polvere e pazientemente fare ciò che nel nostro piccolo possiamo fare per aiutare noi stessi, anche facendoci aiutare dagli altri, anche quando siamo disperati, perché un po’ di speranza in fondo in fondo la possiamo trovare.

Siamo disperati che in fondo sperano ancora.

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